Baby face

Al centro di questo film drammatico dell’era pre-codice Hays, forse uno dei più importanti della serie, vi è la Stanwyck e la sua scalata al successo. Il tentativo di rivalsa prenderà vita anche grazie agli aforismi nietzschiani che le legge un professore, unico nobile frequentatore del bar del padre:
“Sfrutta il tuo corpo”, le dice.
E Barbara lo sfrutta il suo corpo, perché per essere sinuosa le basta un abito povero ma già elegantissimo la cui parte superiore è fatta da una maglia con un colletto a punta e quella inferiore di una semplice gonna nera. Già la sua estrema eleganza è disvelata malgrado la sobrietà e la povertà dei tessuti. E, oltre al vestito, è rafforzata dalla postura che la ritrae su una sedia atteggiata come fosse già la diva del finale.

Per iniziare la sua scalata utilizza l’unico vestito che ha coi fiori che sottolinea il suo provincialismo, ma le permette comunque di sedurre il controllore del treno per giungere dove deve e poi farsi dare la dritta dal guardiano del grattacielo per trovare un lavoro.
La successiva risalita dal primo piano fino alla cima della banca/grattacielo newyorkese è puntellata da colletti.
Questo accessorio così pudico, pur cambiando materiali e forme, vuole sottolineare il finto candore della protagonista che 
invece mira al potere come solo una mantide religiosa saprebbe fare.
Primo vi è il colletto puritano coi bottoni che completa l’abito a motivi geometrici.

 

Poi quello a fazzoletto con il monogramma razionalista che vorrebbe richiamare ad una austerità e ad una misura, ma in realtà è esplosione verso il lusso cui è destinata.

O il colletto all’uncinetto che evoca quasi la dimensione di un focolare, uno scialle della nonna che però mira a sedurre.


Compare per ultimo un pizzo con le rouches che è già 
una vestaglia notturna da femme fatale.
Ma quando la metamorfosi è pronta e approdata agli ultimi piani del palazzo in cui si trovano il magnate e il suo genero, inizia lo sfolgorio degli abiti.
E il collettto si trasforma in un corrusco paio d’ali brillantinate che la porteranno talmente in alto da dover cadere per forza.

Dopo tutta quella stoffa, Barbara inizierà ad essere vulnerabile quando scoprirà il suo lato più fragile, la parte che non può vedersi, quella che mostra allo sguardo degli altri.
Quando lascerà libera la schiena, l’algida e bellissima protagonista saprà spogliarsi di tutto quello che ha accumulato, solo per amore.

Un tramonto da un euro


Giravo, quando ancor si poteva, per via Balbi proprio all’imbrunire.
E, come capita spesso, il mio occhio è stato attirato dalla bellezza del cortile di Palazzo Reale.
Il sole stava per tramontare e chiesi, con modi gentili, al portiere:
“Posso andare a vedere il tramonto?”
Lui mi rispose: “Certo”
Ero già quasi dall’altra parte, quando però aggiunse:
“Ma costa un euro.”
Me ne stavo andando stizzita, ma ricordai di essere a Genova.
In fondo non era così tanto per:
delle nuvole di zucchero filato,
uno stagno di ninfee nel buio,
delle palme a incorniciare lo spettacolo,
e, soprattuto le gru del porto, a rivendicare il diritto del color tramonto.
Tutto questo stratificato come una torta nuziale, da un euro a porzione.

I gatti del muretto

Tutti i giorni i due gatti si incontrano in questo posto.
Si guardano ognuno dal proprio muretto.
È un appuntamento il loro: silenzioso, fissato, abituale.
I felini passano il ritrovo quotidiano, così, a rimirarsi.
E aspettano tutta la giornata perché avvenga quel momento.
Però, ogni volta che arriva sera, litigano.
La gatta miagola perché desidera che lui venga a vedere la sua tana.
Il gatto miagola perché non ha nessuna intenzione di spostarsi.
La gatta miagola perché vorrebbe che lui la portasse da qualche altra parte.
Il gatto mi
agola perché vorrebbe godersi, da lì, l’imbrunire insieme a lei.
Ma tutta questa acrimonia deriva solo dal fatto che sono dispiaciuti di salutarsi. 
Un miagolio dopo l’altro, uno screzio che segue quello precedente, finché il gatto non si presenta più al loro rendez-vous.
La prima volta la gatta pensa che lui non sia potuto venire.
Il giorno dopo, in cui succede la stessa cosa, lei crede che sia un po’ influenzato e quindi non sia uscito.
Il successivo è certa che abbia dovuto lavorare fino a tardi.
E così con la pioggia, con il vento e con il sole la gatta rimane sempre lì, dalla sua parte del fossato, ad aspettare che il gatto si rifaccia vivo.
Ma non dubita mai, nemmeno un istante, che lui non verrà più.
Che si sia stancato di lei.
Che abbia cambiato muretto.
Perchè non può essere la sola a volerlo vedere tanto.
Certe cose, quando sono così forti, si desiderano in due.
E infatti una mattina, di punto in bianco, dopo molto tempo il gatto torna.
In una bella giornata di sole quando il cielo è azzurro.
Nessuno dei due parla all’altro di cosa sia successo, né allora, né nei periodi a seguire.
Tutti i giorni i due gatti si incontrano in questo posto.
L’unica cosa importante per lui è rivedere la gatta e l’unica cosa importante per lei è rivedere il gatto.

Le giornate del cinema muto di Pordenone


Nelle sere della scorsa settimana ho cenato con Oliver Hardy, ho fatto diverse chiacchiere con Brigitte Helm davanti ad un cordiale, ho pianto per amore insieme a Mary Pickford e ho riso a crepapelle con Stan Laurel.
Finito di studiare, chiuse tutte le luci, azionata la cassa Bluetooth mi sono messa a sognare, immersa nella magia del cinema Muto.
Devo ringraziare in qualche modo la pandemia se quest’anno ho potuto accedere via streaming alle giornate del Cinema muto di Pordenone.
Ad ottobre mi è impossibile raggiungere la città friulana dati i molti guai di ogni inizio dell’anno scolastico.
Ma questa volta è stato come se fossi lì e ve lo racconterò nelle mie storie..

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Tutte le mie password


Tu,
che sei
tutte le mie password.
Dall’Inps
all’Agenzia dell’entrate,
dalla tessera della Pam
alla mail di Yahoo.
Sei dentro alla bolletta online
e persino nella posta del Miur.

È come se tutti
lo vedessero
che ti amo,
ogni cosa
che apro.
Ma ora,
alla faccia degli hacker,
mi rimane solo il tuo nome,

inciso nella rete
come fosse la corteccia di un abete.

E se non mi vuoi più
diventa illogico
guardare le lettere,
la contabilità
e il cassetto fiscale.

Senza di te,
mi sembra solo
di dimenticare
tutto quello che c’è.

ioabito

ioabito è il racconto dei miei vestiti.
Quelli che ho abitato.
In cui ho cantato, sono andata a scuola, mi sono innamorata.

Della mia casa


Della mia casa
Non ho muri
Soffitti, pavimenti.
Della mia casa posseggo le
rondini sopra di me all’aperitivo,
la pioggia ritmica sull’ardesia
quando nel letto ancora albeggia,
le campane della domenica come orchestra, tra gli intervalli del centro storico.
Un limbo di mare
Che di più non se ne può avere.
E quei pini marittimi
Le cui teste, ora paiono piegate,
Ma rimarranno il talamo del nostro amore.

Come maggese (ultima parte)

Ultima settimana.

La prossima settimana la Quarantena in qualche modo finirà e, con le dovute precauzioni, si potrà uscire.
Mentre vado al super, cerco di rimuginare su un articolo che oggi mi ha fatto molto riflettere.
Una lettera al giornale di uno scrittore di successo che si interroga sulle possibili conseguenze di questo periodo sulla società e in particolare sulle relazioni.
Qualcuno reagirà abbandonando la famiglia.
Dalla corsia dei detergenti una ragazza mi guarda con odio.
Non ne capisco la motivazione, forse perché io ho la mascherina FFP2 e lei no.
Dicendo addio al coniuge o alla partner.
L’uomo del banco salumi canta ad alta voce la canzone “Maledetta primavera” di Loretta Goggi.
La mascherina smorza le parole, ma io la riconosco e canto con lui.
Uomini e donne fisseranno nuove priorità e impareranno a distinguere meglio ciò che è importante da ciò che è futile.
Un anziano è da solo nel reparto casalinghi.
Guarda i prodotti, con un chiaro bisogno di aiuto, sperando che gli rispondano.
Al mio sguardo sorridente, posso immaginarlo increspare le labbra anche senza vederlo.
Ci sarà chi per la prima volta si interrogherà sulle scelte fatte, sulle rinunce, sui compromessi.
Arrivo dalla cassiera e mi rendo conto di aver dimenticato il latte.
Mi guarda malissimo, ma ho talmente tanta roba che faccio in tempo ad andarlo a prendere.
“Ma si ricordi che ho la tessera” le dico dato che ho preso molti prodotti in offerta.
Quando arrivo, il conto è fatto “Scusi, ma la mia tessera?”
Mi risponde secca che ora non si può più.
Sembra che sia mia la colpa se lei è qui a rischiare di ammalarsi.
Torno a casa con un cestello d’acqua da una parte e due sacchi di plastica di quelli rigidi traboccanti dall’altra.
Sugli amori che non ha osato amare.
Sulla vita che non ha osato vivere.
Uomini e donne si chiederanno perché sprecano l’esistenza in relazioni che provocano loro amarezza.
Oggi faccio ginnastica anche io sbirciando quella della finestra di fronte.
Nei momenti fitness indossa un completino che la rende ancora più perfetta del solito. Come fosse in eurovisione, esegue i suoi squat giornalieri.
Mi metto a specchio davanti a lei cercando di farle capire che la sto seguendo, che è diventata il mio personal trainer casalingo.
Lei non volge mai lo sguardo dalla mia parte, fissa invece un punto nel vuoto perché è il modo più corretto per svolgere l’esercizio.
Veniamo interrotte dalle grida del vicino di sopra.
È un insieme di lacrime e le bestemmie.
Salgo e gli suono al campanello.
È un po’ spaventato, ma gli dico che non deve aver paura.
Che l’idea di uscire terrorizza anche me.
Ma non potremo sapere che sarà.
Che sarà, che sarà, che sarà, che sarà della mia vita chi lo sa.
Forse tutto, forse niente, da domani si vedrà..
Quando mi rendo conto che sto cantando a squarciagola la parte della moretta de I ricchi e poveri sul ballatoio di casa, è troppo tardi per smettere.
D’improvviso, come in un film, gli dico che devo andare, da troppi giorni non piove e le mie piante hanno bisogno di me.
Sono felice perché sembra tornato di buon umore.
Affronto il viaggio verso l’attico.
Decido di prendere un autobus.
Vuota, la carcassa del 20, sembra un pezzo di un brutto gioco per bambini.
Arrivata. La salita non solo è deserta, ma anche buia.
In quella strada, dopo una certa ora, spengono i lampioni perché non esca nessuno.
Sembra la casa delle streghe ai baracconi, più che somigliare alla via dell’attico.
Appena arrivata sul mio terrazzo, i ciclamini, le violette, le belle di notte, la gardenia, i gelsomini, le rose, i gerani, gli ibiscus, persino i cactus mi travolgono con la loro fioritura.
La primavera sembra brindare alla faccia nostra e del virus.
Dopo aver religiosamente bagnato, mi precipito a cercare la scatola.
Non voglio guardare le sue cose e nemmeno le mie.
Mi fanno più paura
delle persone con le mascherine,
del mondo diventato nave fantasma,
delle bestemmie e delle lacrime del vicino
e sicuramente anche del virus.
Voglio solo quella scatola anche se non l’aprirò mai.
Mi viene in mente un termine che avevo imparato alle elementari e che avevo rimosso.
Allora non sapevo né cosa, né come fosse fatto.
Faceva parte del programma di geografia di una quinta elementare milanese di tanti anni fa, in cui si parlava di Lombardia e pratiche agricole.
All’esame mi chiesero proprio quello.
Naturalmente non lo ricordai e mi abbassarono da ottimo a buono il giudizio dell’esame finale.
Uscita da lì, imparai a memoria la risposta esatta per non dimenticarla più.
Mi chiesero come si chiamasse la messa a riposo di un appezzamento di terra per restituirgli fertilità.
Ora, avrei risposto: pandemia.
Penso che la situazione in cui si siamo trovati, se non fortificherà l’essere umano, come dicono molti, lo avrà fatto riposare come fosse un terreno per renderlo di nuovo fertile.
In quell’esatto momento sento la chiave che gira nella toppa e mi metto tra i fiori del terrazzo.
Mi troverà lì con la sua scatola.
Come maggese.

Come maggese (quarta parte)

Terza settimana di Quarantena

Agosto 1920
Cara Nenna,
io e Maria abbiamo deciso di lasciare Locana ed tornare a Serlone.
Porteremmo anche te ma, date le tue condizioni, temo sarebbe troppo pericoloso nel caso avessi bisogno di partorire prematuramente.
La nostra è una vera e propria fuga dal terribile morbo.
Come sai coglie coglie più i giovani dei vecchi e questo mi spaventa terribilmente per le nostre due giovani figlie.
Sicuramente un giorno entrambe capiranno questa decisione.
Franca, per fortuna, si dedica ancora ai giochi e la montagna non può che lasciarla più libera e felice di correre dietro ai cani e alle bestie.
Nei prati e tra i fiori, proprio dove la vorrei vedere nei prossimi mesi.
Lidia, la primogenita, troverà più doloroso allontanarsi dalle amiche e sopratutto dai sabati sera alla balera di Cuorgnè. È, infatti, in età da marito.
Non abbiamo ancora avuto il cuore dirle che risaliremo subito.
Siamo tornati da lì solo la scorsa settimana e lei dovrebbe iniziare a giorni l’ultimo anno di superiori in città.
Io e Maria abbiamo fatto entrambi studi di ragioneria e sono sicuro che con nostro aiuto potrà dare gli esami come privatista.
Nel caso non riuscisse a diplomarsi, ripeterà l’anno senza che nessuno se ne rammarichi.
I malati in città cominciano a diventare troppi.
Un amico mi ha raccontato le terribili complicanze della virulenza.
Un suo vicino ha avuto un’emorragia dalle mucose, in particolare dal naso.
Un altro conoscente dallo stomaco e dall’intestino.
E addirittura all’osteria uno raccontava che il sangue può uscire dalle orecchie e si può sudare fino a rimanerne senza.
Non posso pensare alle mie care ridotte in quel modo.
Abbiamo deciso di portare anche la zia Nina.
Dato che è sordomuta non può rimanere sola.
Poi ama molto l’aria di montagna, forse perché in alto è più facile stare in silenzio.
Salutami tutti i cugini e le cugine che non siamo riusciti a rivedere.
Partiremo domani prima dell’alba e cercheremo di arrivare entro sera.
La strada di notte si riempie di lupi.
A presto e che Iddio ti protegga insieme alla tua famiglia e al piccolo che porti in grembo.
Tuo zio,
Giuseppe.

Come maggese (terza parte)

Seconda settimana di quarantena

Questa mattina ho sognato i pesci.
Dico mattina perché entro tardi nella fase REM del sonno.
Per quello di notte dormo male.
Ma stamane è l’ora giusta, quella delle campane di mezzogiorno e quindi rimango piacevolmente avvolta nel mio sogno.