robertoMi ero beccata il morbillo quell’estate. Mi avevano detto che sarebbe stata una serata facile e pagata bene. Quindi doveva esserci qualcosa che non andava. Infatti il cantante che doveva occuparsi dell’animazione non aveva una bella faccia. E malgrado la febbre, i sudori freddi e gli occhi lucidissimi continuava ad utilizzare il mio microfono. Dopo un mese, l’11 agosto, come una tassa inesorabile, giunse la malattia. Via Venti Settembre 20 era deserta a parte me, le mie macchie, la guardia giurata Roberta e lui. Roberto Maini. Di persona l’ho conosciuto così. Prima, per me, quello strano pittore spiccava solo nei meravigliosi racconti di certi intellettuali genovesi. In gioventù, si narrava, che facesse parte di un trio composto da Aldo Padovano, ancora oggi un’istituzione per la città, e Mastroianni, un signore bello ed elegante che chiamavano così per la somiglianza all’attore. Insieme prendevano caffè da Mangini. Parlavano. Inventavano. Facevano poesia. Pare che una volta avessero attraversato con una macchina d’epoca Via XXV Aprile, ma nessuno sapesse guidare. Alcuni anni dopo, io e Roberto ci trovammo a condividere un cavedio troppo piccolo, uno di fronte all’altro, dirimpettai, come nel duello finale di un western. Si metteva alla finestra, della quale intravedevo la tapparella abbassata quasi completamente e dalla quale usciva la sua voce. Non quella metallica che faceva risuonare per la città, ma dolce, sussurrata, una cantilena di parole che uscivano tanto musicali, quanto terribili. Insulti, profondi, irrazionali, ma azzeccatissimi. “Ti metti la crema, ti togli la crema. E poi te la rimetti ancora” diceva, ritraendomi perfettamente. Era questo Roberto. Ti guardava dentro. Anche se la sua tapparella era tirata giù. Anche se non ti aveva ancora mai incontrato. E poi faceva la sintesi. La prima volta che viaggiammo in ascensore insieme, ero con un’amica con cui avevo fatto serata. Ci disse che eravamo stanche e che per noi ci voleva la pietra di luna, due cucchiai, tutte le mattine. Da lì in poi avanguardia pura. Ogni volta che andavo al quinto o scendevo a terra mi guardavo attorno come ad aspettarlo. Non avevo paura di rimanere in quel piccolo spazio con lui perché, come mi spiegò Sirianni una sera, l’aggressività verbale è raramente anche fisica. Meglio dei criminologi, Federico Sirianni. Se salivo dopo di lui, l’odore di tabacco, polvere e ruggine che stanziava nell’abitacolo ad ogni suo passaggio, mi rimaneva addosso per ore. Ma era proprio nei luoghi chiusi che le sue frasi prendevano vita: lì rimbombavano, rimbalzavano, rotolavano. Alcune mi son state raccontate, altre le ho trovate sulle vostre bacheche in questi giorni, certe me le ha gridate contro. Ma se si ascolta bene, quelle parole circolano ancora grazie alla sua voce unica ed indimenticabile. Tra i caffè eleganti di Galleria Mazzini, sempre uguale a se stessa. Nella stazione Principe, anche se nuova di zecca. Nei miei tre ascensori, che quando li chiami non arrivano mai. E suonano così forti ed esatte che qualche sorso va certamente di traverso, qualcuno il treno lo perde e sicuramente qualche ascensore si ferma.

“Il panama e gli inglesi”

E questi svizzeri con i loro treni dai tetti di carte di credito dove vogliono andare?”

“Londra, Parigi, Bolzaneto: ho girato il mondo!”

“E l’ aquila vide che nacquero moooolte gaaaaliiiine”

“Bastano poche parole per rendere felice un uomo: mani in alto! Questa è una rapina!”

“Son le 17,50, le 17.51, 17.52, le 17.53 e in paradiso non ti passa più” 

 “Se scoppia la bomba il mondo non sarà più spermatico!”

“Quel bastardo che ha inventato il bidet”

“Avete i buchi di culo come lavatrici”

“Capitalista di merda, gliel’hai comprata la pelliccia a tua moglie?”

” Ciao, ciao belina artistica!”

Un mio amico attore, in dizione perfetta, gli chiese: “Roberto come fai ad avere quella voce così profonda? Un segreto che mi servirebbe per recitare.” E lui rispose: “Perché ho mangiato una merda.”