I parrucchieri cinesi

Alcuni si portano lo shampoo
dai parrucchieri cinesi.
O addirittura lo lasciano lì.
Così, quando tornano, c’è.

Altri non ne parlano bene.
Che se ci vai, ti cadono i capelli, prima o poi.

Dai parrucchieri cinesi o non c’è nessuno,
o son pieni di gente.

Ma, se chiedi, comunque tra 10 minuti tocca a te.

Tra di loro si trattano male,
ma in cinese però,
così tu non capisci nulla.

I parrucchieri cinesi si vestono alla moda e hanno ciuffi pazzeschi,
ma sia il capello che l’abito son cinesi pure loro.

Quando ti fanno lo shampoo
si impegnano tantissimo
“masagio alla testa”, si chiama.
Che quando penso troppo,
poi vado da loro e sto molto meglio.

Io, infatti, mi rilasso dai parrucchieri cinesi,
mi sembra di essere in vacanza in Cina.
Che ci vorrei andare prima o poi.

Una volta, che dovevo fare la piega per amore,
uno di loro mi ha visto correre per tutta San Vincenzo
per arrivare in tempo prima che chiudesse.
Da allora mi sorride sempre,
ho creduto anche fosse innamorato di me.
Invece no, data l’energia messa in quella corsa,
ha solo pensato
che fossi cinese pure io.


(Non è) la Rai

La scorsa settimana, per vincere la nostalgia di Sanremo, mi son regalata due serate Rai.
La Fiction in due puntate Studio Uno e il film per la tv Dalida.
Entrambe, in modi diversi, mi hanno stupito.

Studio Uno. La storia romanzata del programma andato in onda nel 1961 e di tre signorine che ci lavoravano.
La ragazza madre che, pur essendo stata presa in sartoria, vuole fare la cantante senza scendere a compromessi. In modo più o meno realistico sposa un bravo ragazzo e canta solo più al suo matrimonio.
La ballerina che va avanti solo a compromessi e si redime innamorandosi dell’integerrimo capo del corpo di ballo. Che nella realtà sarebbe stato gay.
L’impiegata carina, ma senza laurea che diventa assistente alla regia di Antonello Falqui e in preda ai grilli del successo, lascia un quasi marito, per giunta ingegnere, per un ragazzotto figlio di papà. Dopo un bacio, questo l’avrebbe lasciata per la prima soubrette a caso.
Ma una cosa bella c’era.
Mina.
Mina è sempre bella e ve lo dice una che ne fa quasi un senso della vita.
E quando ha visto le tre signorine pubblicizzare a Sanremo la fiction, si è incuriosita solo per come l’avrebbero rappresentata.
Ed ecco la trovata registica Rai: pur essendo la vera protagonista, dato che era l’anima di Studio Uno, Mina non si vede mai.
Se non di spalle, di sfuggita, di corsa.
Per vederla frontalmente dobbiamo entrare nella tv in bianco e nero.
Quella nella sala regia di Falqui, nelle case delle persone, nei bar.
Ma anche quella nella memoria dei nostri genitori, forse gli unici insieme a me, davanti alla tv la sera di San Valentino.
Quella che canta, si vede e si sogna nella fiction è la Mina vera.
La stessa, anche se sembra impossibile, che ora duetta con Celentano ed è la voce di Tim, Tim, Tim con quel ballerino indemoniato a cui volentieri sparerei.
Molto bello. Grazie Rai.

Dalida. Delicata. Disperata. Bellissima. Sola. Bulimica d’amore e di vita.
Ad un certo punto un produttore dice che la sua musica è troppo vecchia per gli anni ’60.
Incoraggiante, dato che è la stessa musica che faccio io nel 2017.
Davanti ai suoi occhialoni neri, passano in rassegna amori e canzoni.
E la traduzione dei testi in italiano sullo schermo.
Cercando di toglierle gli occhiali, i suoi uomini la amano fino ad alcolizzarsi, a tradirla, ad uccidersi.
L’effetto che vorrei fare ai miei, senza riuscirci.
Ma Iolanda, vero nome di Dali, è una donna vittima della sua fatalità.
Fino a vomitar pasta per non ingrassare.
Per fermare tempo e taglia.
Ogni domenica si riempie la casa di amici, perché, quanto ha ragione, è il giorno più solo della settimana.
Si riduce a stare in casa con le luci e le persiane abbassate a causa del male agli occhi.
Un male dentro che le rende la vita insopportabile.
Bello, davvero. Grazie ancora Rai.



L’abito perfetto

abitoLei cercava un abito.
Ma non uno qualunque.
Doveva essere eccezionale, di una consistenza immateriale e di un colore talmente bello da richiamare i paesaggi della natura.
Le serviva per quando si sarebbero rivisti.
In quell’incontro avrebbe dovuto spiccare di luce propria.
Lui non l’avrebbe più dimenticata.
E allora faceva impazzire le commesse.
Vorrei provare questo, vorrei provare quell’altro.
Le ragazze che, col salire del prezzo del vestito, si impegnavano sempre più nell’aiutarla, ascoltavano le sue richieste e la coprivano di piume, pizzi, veli, ma non la soddisfacevano mai abbastanza. Nessuno dei capi provati le illuminava l’incarnato, le esaltava il sorriso, le sottolineava la figura e le forme, come avrebbe dovuto. I verdi intensi, i rossi corallo, i blu oltremare non bastavano mai a raggiungere l’immagine che aveva nella testa. L’abito che risultasse perfetto ai suoi occhi proprio come quell’uomo con il quale l’avrebbe indossato, sembrava non esistere. E le commesse non potevano che rimanere deluse da quel fallimento. E non solamente perché non avevano venduto, ma perché in un qualche modo non erano riuscite a farle realizzare qualcosa di molto più importante.
Quando andava per negozi, non si truccava e si metteva vestiario semplice, come una tuta che l’agevolasse nella ricerca e non la confondesse nella scelta. I giorni passavano e più non trovava quell’indumento e più quell’uomo si nascondeva nel suo silenzio, non chiamandola e non scrivendole. Questo, da una parte la rassicurava, visto che non avrebbe saputo cosa mettersi, ma dall’altra la spaventava che se non avesse trovato il pezzo giusto, forse Lui non si sarebbe fatto sentire mai più.
Un giorno, sfinita dalle numerose prove, si sedette in un caffè per riposarsi e bere qualcosa.
Dal tavolino di fronte, un signore la guardava.
Lei indossava un completo di ciniglia di un colore neutro.
Dopo sguardi insistenti, si avvicinò e le chiese se poteva rivolgerle la parola.
Lei annuì e lui le disse quanto era bella.
Arrossì stupita dal complimento, data la mise che indossava, ma gli rispose comunque un grazie imbarazzato.
Lui continuò, dicendo che il colore dei suoi occhi spiccava come nero su bianco, grazie al tono anonimo del suo abbigliamento e al viso struccato.
Quando l’uomo se ne andò squillò il telefono.
Finalmente sentì quella voce che tanto aspettava: era Lui che le proponeva di vedersi la sera stessa.
Lei andò all’appuntamento senza tornare a casa a cambiarsi o a truccarsi.
Quella sera, nel tempo che le rimase fino al loro incontro, non cercò più l’abito.
L’aveva finalmente trovato.