Baia del Corvo, Piani d’Invrea

Tutti i giorni, di tutte le estati, un uomo scende in spiaggia.
Ha un accappatoio blu ed occhialini da mare.
I capelli grigi.
Un fisico asciutto.
L’aspetto da professionista.
Arriva verso le 13 in accappatoio, lo appoggia sul recinto dello stabilimento privato, indossa gli occhialini e lascia le ciabatte.
Appena entrato nel mare, si sposta a largo e lo attraversa.
Da una sponda all’altra.
Si muove a stile libero con bracciate, tutte uguali, precise, calibrate.
Poi torna a riva.
Si toglie gli occhialini, indossa l’accappatoio e le ciabatte e, ancora col fiatone, risale la scala che lo porterà a casa.
Nessuna esitazione.
Nemmeno un attimo a godere della lusinga del sole.
Così differente da tutti gli altri abitanti del litorale.
Stravaccati, accaldati, pigri.
Me lo aveva fatto notare Stefano Gioia, il migliore amico di mia mamma, almeno una quindicina di anni fa.
A parte i capelli corvini, il rituale era il medesimo, l’accappatoio sempre azzurro e gli occhialini trasparenti.
Stefano ci veniva a trovare una settimana ogni estate e per due volte al giorno rimaneva a fissare il nuotatore, affascinato da quel suo esercizio quotidiano.
Io, poco più che bambina, mi chiedevo il perché.
Come tutti gli altri, nemmeno mi sarei accorta del suo silenzioso passaggio se non fosse stato per lui.
Ora, che Gioia non c’è più, sono io che aspetto quella cerimonia marina tutti i giorni, di tutte le estati.
E vederla mi rassicura.
E mi prova che gli esseri umani, da qualche parte, continuano ad esistere.

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