Il delicatissimo momento della scrittura della password

Capita a tutti di trovarsi di fronte a questa frase, magari in un rettangolo rosso o evidenziata in qualche modo in grassetto.
Password errata, riprova.
Password dimenticata?
A questo punto si cominciano a fornire credenziali per autenticarsi in qualche modo, fino a che non si riceve una mail rassicurante che il tentativo è andato a buon fine e la password dimenticata si può cambiare.
Questa cosa, in una situazione normale, dovrebbe succedere una volta ogni due-tre mesi, magari entrando in siti dove non si andava spesso.
Ecco, nel mio caso, succede quasi ogni giorno.

Appena leggo password sbagliata mi sovviene un senso di angoscia.
E il computer, naturalmente, come un animale del bosco, l’avverte.
Allora provo a dissimulare, rispondendo ad una serie di domande, il nome della tua mamma da signorina, la tua squadra di calcio favorita, il colore che metti di più, fino a quella domanda mitica:
Dove hai conosciuto il tuo amore.
Ecco io lo so, certo ed è un bellissimo ricordo, ma perché dovrei condividerlo proprio con te?
Che a dire il vero nemmeno ti conosco?
Dunque non rispondo. O non sinceramente. E so di aver perso l’ultima possibilità di recuperarla e chissà, magari di ricrearne una nuova.

Ho capito, dopo una accurata autodiagnosi, che la mia è la classica malattia dell’oblio da password.
Ecco i sintomi.
Che siano le credenziali di Google, l’ingresso al blog, la mia pagina personale all’Inps, io non la so.
Appena la creo, a causa di qualche inspiegabile amnesia, la dimentico immediatamente.
Cosa che, oltre a farmi litigare con ogni computer col quale mi imbatto, porta alla follia gli informatici che in qualche modo si devono relazionare con me.
Sia per rapporti professionali, che di amicizia.
Un altro gravissimo sintomo è quello, non so per quale assurda mania, di non usare sempre la stessa password.
Sistema che, seppur pericolosissimo a detta degli informatici, appare sicuro per ogni tipo d’ingresso multimediale.
Quando provo a farlo comincio a consumarmi in terribili dubbi.
Era il nome della mia diva preferita. Ma maiuscolo o minuscolo?
E poi il numero era la data di nascita completa o solo giorno e mese?
E soprattutto avrò mentito sulla data togliendomi qualche anno?
Ed è subito notte.
Gli addetti del mestiere sostengono, per loro la cosa più semplice del mondo, che dovrei tenere sempre con me un quaderno con tutte le password.
Scrivere a sinistra di cosa sono e a destra il termine magico.
Ma io non ce la faccio.
A volte l’ho creato, ma poi ho perso anche quello.
Dopo una lunga analisi di questo e degli altri sintomi del mio male, ho capito che è di natura psicologica.
Io non accetto.
Non accetto che la mia identità sia misurata da una fila di sette lettere, alcune maiuscole altre minuscole, ed almeno due numeri ed un segno alfanumerico (@#$)
Non accetto che io corrisponda in qualche modo a questa strana parola, se si può chiamare così, dato che nemmeno la si può leggere insieme.
Questo luogo dell’identità postmoderna viene da me categoricamente rifiutato.
Sono più di una password.
E dunque la dimentico.
Infine la cosa che rende ancora più curiosa la questione è che, malgrado la mia pessima condotta, gli informatici, per qualche ragione sconosciuta, si innamorino quasi sempre di me.
Sarà una qualche sindrome della crocerossina, tipica di chi aggiusta macchine intelligenti.

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