Fabrizio De Andrè, Principe Libero

Le acciughe fanno il pallone che sotto c’è l’ala lunga.

Fuori dal cinema c’è tanta gente.
Tanta Genova.
Li vedo dal bar di fronte all’Ariston, alla prima di Fabrizio De Andrè Principe Libero.
Davanti ad un caffè, li spio.
Si parla soprattutto del problema dell’accento del protagonista:
“Come si fa a sopportare un De Andrè che parla in romanesco? Mah, non ne avrei idea.”
“ Sembrerebbe troppo una fiction. Su De Andrè? Impossibile.”
Io guardo, io non commento, io sono straniera.

Ogni tre ami c’è una stella marina, ogni tre stelle c’è un aereo che vola, ogni tre notti un sogno che mi innamora.

Inizia e mi prende subito.
Guardo il mare di Boccadasse che mi ha ospitato tutti i primi anni, quando pensavo fosse l’unica spiaggia di Genova.
Mi perdo nei vicoli che rimangono il più  grande mistero.
Come il bar di San Pancrazio, che al contrario degli altri posti invecchiati per il set, hanno lasciato esattamente come è, perché bloccato nel passato.
Rivedo la salita di San Francesco, che per me è discesa, aggrappata ad un uomo non solo per i miei tacchi troppo alti.
Riconosco la Claque, location nel film del primo concerto alla Bussola, dove la paura di Fabrizio mi ricorda la mia, combattuta così tante volte su quel parquet.
E infine Spianata Castelletto, talmente bella, da sembrare un falso, una sintesi inesatta della città.
Nulla è così bello, mai.

Passano le villeggianti, con gli occhi di vetro scuro, passano sotto le reti che asciugano sul muro.

Eravamo tutti dentro al cinema per te, Faber.
C’ero pure io. Io che non sono mai stata una deandrèiana.
Io che, a te, preferisco Ciampi.
Io che, come i presenti, non faccio parte della tua Genova.
Quella che stasera non c’è.
Quella che, in vicoli non molto lontani, è impegnata a scaldare la notte di un martedì come gli altri.
Ma che forse ti guarderà in televisione, commuovendosi sul finale.
Forse.

Ogni balcone, una bocca che m’innamora.


Extension

MAN RAY, Larmes de verre, 1932.

Appena ho fatto le ciglia
Non posso bagnarmi la faccia.
Nè andare in piscina
O fare una doccia.
Se no la colla non tiene.

Ma appena ho fatto le ciglia
I miei amori partono
Per non tornare mai più.

Appena ho fatto le ciglia
Il mare diventa pulito e tutti, nel blu,
nuotano felici,
tranne me.

Appena ho fatto le ciglia
I mendicanti mi chiedono l’elemosina
Vestiti d’estate d’inverno
E d’inverno d’estate.

Appena ho fatto le ciglia
Qualcuno muore improvvisamente
Lasciandomi ancora più sola.

Appena ho fatto le ciglia
le temperature si alzano
e mi cadono goccioline di sudore, proprio dagli occhi.

Appena ho fatto le ciglia scoppiano guerre,
donne violentate e bambini abbandonati,
magari anche in Africa, con quelle pance gonfie d’aria.

Appena ho fatto le ciglia, mi invitano al cinema
e son sempre film drammatici, mai commedie.

Per la cena, la sera che ho appena fatto le ciglia, infine,
mi tocca tagliare cipolle per farne una zuppa.

Tantochè, appena ho fatto le ciglia,
al mattino le ritrovo sul cuscino,
come fossero l’ultima cosa che resta di me.

 


L’abito ce l’ho

Quando si incontra una vera meraviglia è difficile lasciarla.
Quando sembra fatta per noi.
Quando ci calza a pennello.
In un mondo fatto di incontri sbagliati.
Poi la vita è una sola.
E se si vuole veramente una cosa conviene prendersela subito, prima che sparisca insieme al desiderio di possederla.
Così ho fatto l’altro giorno.



Il treno di Capodanno

Mi piace prendere il treno.
E mi piace ancora di più nei momenti impossibili.
In cui non viaggia nessuno.
In cui è pericoloso.
In cui i bagni sono sconsigliati e i controllori non passano.
Ma la notte di Capodanno non mi ero mai spostata.
Non ero arrivata fino a tanto.

E dunque sono tra Genova e Milano all’ultimo dell’anno.
Non in un Intercity o in un Italo, ma nell’Interregionale Trenitalia n. 1692.
Quando entro nello scompartimento è vuoto.
Ed io sono contenta, dato l’intento di leggere e scrivere.
Arrivano due americane che parlano di ragazzi italiani conosciuti in viaggio.
E sono meno contenta perché parlano a voce troppo alta.
Poi è il turno di un gruppo di quattro magrebini che si siedono proprio alle mie spalle.
Certamente sono attirati dalle americane che sono veramente graziose.
I marocchini ascoltano musica altissima dai cellulari per farsi notare dalle bionde.
Mancano ancora 50 minuti a Milano e hanno decisamente voglia di fare festa.
Sono tutti stranieri sul treno.
Sembra una puntata di Mediteranno su Rai tre.
A Tortona passa un rasta con una bottiglia di vino rosso.
Gli uomini lo fermano.
Ho paura per lui e, chissà perché, anche per le americane.
In un film horror sarebbero certamente le prime a morire.
Non so cosa gli chiedano gli stranieri.
Non mi giro abbastanza per capire cosa stia succedendo.
Cerco di farmi notare il meno possibile. 

Ma il ragazzo offre loro un bicchiere di vino e diventano amici.
Bob Marley dà una golata alla bottiglia e se ne va.
Ma sembra che l’episodio abbia aperto le danze.
Gli uomini iniziano a fumare e bere.
E a dire cose del tipo: “Siamo vicini al 2018, divertiamoci!!
Forse mi fanno capire per la prima volta il senso del Capodanno.
Le americane, nel frattempo, provano a dormire.
Devono aver fatto serata con i ragazzi di cui parlavano prima o forse fanno finta.
La più alta affronta il capo dei maschi dicendogli di abbassare la musica.
In un attimo si passa agli insulti.
Lei stronzo, lui puttana.
Forse sarebbe l’ora di scendere.
Ma non sono nemmeno a Pavia.
L’unica mia speranza è che ripassi il rasta per dare una golata pure io e brindare al nuovo anno.
Che, per me, è un interregionale veloce in cui l’unica straniera sono io.
Buon anno a tutti”