Estate noir

Barbara Stanwyck in La Fiamma del peccato (1944)

Facebook è un tripudio di tramonti e spiagge.
Dato che la pago la vacanza, ve la faccio vedere.
Ed è tutto un bagno di sole ed un cocktail colorato.
Ora tocca  a me.
La mia estate è così.


Billy Budd, marinaio

Locandina di Billy Budd

Il concetto di liberazione è molto profondo.
Ma in giorni come questo, anche una bionda come me, che se dovessero fare un film sulla mia vita “ci vorrebbero molti tacchi e a spillo ed ossigeno decolorante” , ci riflette.
Liberazione è quando una cosa che mi affligge non c’è più.
Finisce.
Ma dato che certe cose non terminano facilmente, spesso ci si libera da una cosa, cambiando il punto di vista, il modo di vederla.
Il pensiero libera.


Nel mio frigo

Nel mio frigo c’è un limone
di Tropea.
L’ho comprato per condire le fragole.

Nel mio frigo c’è la panna spray.
Anche quella per le fragole.

Ma nel mio frigo non ci sono fragole.
C’è solo una bottiglia di champagne.

Telefonata, sera.
Io. L’ho comprata oggi, così festeggiamo il nuovo anno anche se in anticipo.
Lui. Porterà mica male?
Mai dire una cosa così.
Lacrime e niente da festeggiare.

Interno sera.
Io. Birra o champagne?
Lui. Birra, birra. Lo champagne è troppo.

9 marzo 2017.
Pensiero, sera.  Almeno per il compleanno la aprirò questa bottiglia di champagne?
Notte. Con 3 bicchieri di champagne nel sangue. Ma del bar.

Ci fosse una nave da inaugurare.
Un battesimo da annegare.
Un amore da eternare.
Una vacanza da partire.
Ma non c’è.
Penso che oggi comprerò delle fragole.
Con lo champagne stanno benissimo.


Quelli che aspettano

Alla fermata del Mercato Orientale,
ci sono quelli che aspettano
il 18, il 36, il 39, il 17.
Ma arriva sempre il 42 che si ferma in De Ferrari
e che non l’aspetta mai nessuno.

Nella salita di Via Carcassi c’è una nidata di gatti neri,
che della sfiga se ne frega,
e quando passo, tutti i giorni,
son lì che aspettano un signore.
Nella macchina, parcheggiata in mezzo alla strada,
ha un grosso bagagliaio pieno di carne trita.
Già nei piatti. Già divisa.
Se ci andate verso le cinque del pomeriggio,
come faccio io senza farmi vedere,
lo potete aspettare insieme a loro.

In classe, gli allievi, per quanto mi impegni,
è la campanella che aspettano.
Quando suona si prendono il caffè e fanno due chiacchiere col compagno,
o vanno a fare un giro in bagno.
Che è sempre meglio che ascoltare me.

Io in via Venti al Venti aspetto le canzoni di Sanremo,
di sapere il francese,
che i sabati passino in fretta
e che arrivino i prossimi saldi
insieme all’estate che mi farà ricominciare a fumare
e ad amare sotto alle stelle.

 


Arenzano: la Pineta e il Bambino di Praga

15841486_10154654853051690_108342431_nIo non so se siete mai stati ad Arenzano.
Secondo me è un posto che merita.
Non solo perché nelle giornate invernali, se c’è sole e non c’è vento, si può godere di un caldo primaverile.
Nemmeno perché dall’ex Vinci si beve il miglior gin tonic di tutto il circondario.
Non è il fatto che sia situata al confine tra Genova e Savona e permetta di respirare un’aria ibrida tra le due province.
Arenzano merita perché vi convivono due anime. E lo fanno in modo complementare, come solo chi è così vicino da risultare opposto.
Mi riferisco alla Pineta e al culto del Bambino di Praga.
La Pineta è una sperimentazione architettonica della fine degli anni ’50. Gio’ Ponti, Luigi Rovera, Gianni Zenoni hanno progettato costruzioni che sono state realizzate con materiali poveri, tetti in ardesia e persiane verdi alla francese.
Lusso, famiglie borghesi, pavoni bianchi nel parco, picco sul mare ed esclusività.
Alla Pineta si entra solo superando una sbarra con un badge di identificazione.
Ma soprattutto ci sono l’ascensore di legno e il Calipso.
Nei primi week end di maggio, le signore milanesi arrivano sulle loro Smart dopo un’ora di coda in autostrada. Si godono la terrazza sul mare solo per pochi minuti perché, pur essendo già abbronzate come a Ferragosto, corrono a mettersi l’ultimo bikini creato dalla Fuck, mandano un whatsapp al gruppo la Pineta e con un velo di trucco, jeans e polo sono già sull’ascensore di legno, ad uso esclusivo dei residenti, che le porterà direttamente in spiaggia.
Vi rimarranno fino al tramonto per poi andare a prendere un mojito al pesto al Calipso insieme ai mariti tra un Buddha, un tatami e un massaggio Shiatsu.
Non molto lontano dal centro urbano, con un ampio panorama sui monti e sulla città, in via Guglielmo Marconi c’è invece il santuario del Bambino Gesù di Praga.
I Pellegrini ne approfittano per fare una passeggiata per la cittadina, ma appena solcano il portone si dirigono davanti al centro della Chiesa a rimirarlo.
Diversamente dagli altri Gesù Bambini, questo non è mezzo nudo e riposto in un cestino.
Non è appena nato. E nemmeno povero.
Dimostra un’età tra i tre e i quattro anni e con la sua singolare posizione a braccia aperte sembra attendere i fedeli accogliendoli e benedicendoli allo stesso tempo.
Particolarmente regale, porta un abito svasato in vita che ha degli arabeschi d’oro e dei merletti ai polsi e al collo. La corona è in tinta e alterna oro, argento e velluto rosso.
Nella versione Ceca, quella originale della Santa Maria della Vittoria di Praga, il Gesù Bambino appare giustamente più invernale: è infatti accessoriato con una stola di ermellino bianca.
Ma sono molte le mise che lo ritraggono nelle riproduzioni acquistabili dai fedeli.
La mia preferita è nei toni del blu che rimangono solo uno sfondo alle decorazioni floreali dorate che richiamano i campi di girasole di Van Gogh. Tutto in pandant con la coroncina.
Mi raccontano che a Praga si possano trovare Bambini abbigliati con le nuance del Tiffany e del rosa confetto, come in un’ ipotetica collezione primavera estate.
Pare che esistano versioni anche in colori molto di tendenza come il fucsia o il fluo.
Ma dunque Pineta e Bambino di Praga possono entrare in rapporto grazie all’attenzione estetica che li contraddistingue?
Il Bambino, con le sue mise sontuose, diventa l’ufficiale simbolo del comprensorio residenziale?
Il culto e la comunità sono i due cuori di Arenzano e il loro rapporto rimane per me il grande mistero che rende così affascinante questa cittadina rivierasca.


Ma se ghe pensu….

genova-3A Genova, che io sia ad una festa, in una nuova scuola o alla fine di un concerto, immancabilmente qualcuno mi fa questa domanda:
“Ma con quell’accento milanese, cosa ci fai qui?” In quelle poche parole è racchiuso il mio rapporto con i genovesi, la loro curiosità per la fiera strana che sono, la diffidenza di fronte ai miei modi così estroversi e al mio tanto parlare e sorridere.
A quel punto ho due possibilità.
Se voglio fare la simpatica, ironizzo:
“Dopo quanti anni si prende la cittadinanza genovese? La carta verde si ottiene sposando un autoctono?E se parlasse bene il dialetto, sconterei qualche anno di apolidia?”
Se sono di cattivo umore giunge, inesorabile a rovinarmi la serata, la verità:
“Sono venuta a Genova per amore”
A questo punto, il mio interlocutore peggiora la situazione chiedendo di più e io, che di lui non conosco nemmeno il cognome, racconto dettagliatamente la storia della mia vita, chiudendo con un:
“Ma poi a Genova ci sono rimasta, che c’è il mare e a me basta quello”.
Per la prima volta, alcuni giorni fa, un amico regista mi ha chiesto di cantare alcuni pezzi su Genova ed in dialetto per un suo spettacolo.
Oggi ho letto i testi, ho incominciato a studiarli e ho accennato Ma se ghe pensu con una pronuncia per la quale meriterei la reclusione immediata.
La mie relazioni amorose coi genovesi non migliorano, ma, cantando questi brani ho capito finalmente che non è degli uomini che sono innamorata.
Ma di Genova.
E allora, anche se non si dovrebbe mai farlo, mi dichiaro.
Genova, io ti amo
malgrado non abbia più un ombrello sano che quando piove e c’è vento me li sfasci tutti,
malgrado l’autobus, in alcune salite, si fermi almeno cinque volte perché la strada è troppo stretta e tutti commentino ad alta voce, come se si stesse vivendo insieme un’avventura incredibile,
malgrado i tuoi venti, che cambiano sempre ed io non mi ci abituerò mai perché in Lombardia la temperatura è sempre la stessa dal mattino alla sera,
malgrado quei negozi in cui se entri ti devi scusare e fornire adeguate giustificazioni del motivo per cui lo hai fatto,
malgrado i numeri civici rossi, che non ho mai capito se rispetto ai neri salgano, scendano, siano perpendicolari o inversamente proporzionali,
malgrado si conoscano tutti, ma a me non mi conosce mai nessuno e c’è gente che mi hanno presentato almeno 15 volte e fa finta sempre di non ricordarsi,
malgrado la focaccia e la pasta al pesto, che se fossero nate in Padania, le milanesi le avrebbero abolite per non ingrassare.
Ma soprattutto ti amo perché, dalla prima volta che ti ho visto in sopraelevata, ti trovo bella come lo sarebbe solo Gerusalemme in un disegno di Piero Fornasetti.
Dunque mi perdonerai per la pronuncia di Ma se ghe pensu, dato che in quella interpretazione metterò tutto il mio cuore.

 

 


Il Blues della Bella Addormentata

14643199_10154384138031690_933342835_nIo, il blues non lo canto mai. Mi piace molto e mi somiglia pure, ma non lo canto mai.
Se partecipo ad una jam, quindi, mi devo preparare.
Poi, per mantenere un po’ l’aspetto di Minavagante, cerco un brano che non faccia a botte con la mia passione per la musica italiana.
E non è facile, non so quanti fossero i fan di Sanremo nei campi di cotone.
Mi sono alzata alle sei, quando si è così stanchi o si ha il vuoto attorno o l’illuminazione. Fortunatamente, mi arriva la seconda.
Avevo sentito una versione di The house of rising sun degli Animals in italiano.
No, non quella dei Pooh dove c’è Facchinetti che fa quelle note strane e che non si capisce da dove emetta. Nemmeno quella di Riki Maiocchi, il “maledetto” dei Camaleonti, che si chiamava Non dite a mia madre. Grande interpretazione quella, ma con un testo costruito sul rapporto tra madre e figlio nel quale non saprei immedesimarmi bene.
La versione che cercavo è La casa del sole dei Bisonti.
Contatto il chitarrista, gli dico pezzo e tonalità e aggiungo:“Mi raccomando, studia!”.
Dei chitarristi non bisogna fidarsi mai.
Mi compro un bel vestito con una fantasia di fiori ed uccelli. Faccio una piega. Non c’è il solito cinese, ma va bene lo stesso. Ormai son professoressa, quando canto devo essere in ordine, poi il Count Basie, si sa, è un bel posto e non voglio fare una brutta figura.
Mangio insalata e bresaola guardando i video di RadioItaliatv.
La serata inizia alle dieci, giusto il tempo di rilassarmi un po’.
Indosso il vestito, le scarpe le metto vicino al letto e realizzo un make up leggero.
Sdraiata, in modo che la piega non si rovini, mi dico che è bello riuscire a cantare malgrado il lavoro ed è proprio vero che, se ci si organizza bene, si riesce a fare tutto.
Poi il mio pensiero corre verso una collaborazione di fantasia: Francesca e i Bisonti.
Vedo già la copertina del disco, ho un vestito di velluto rosso cardinalizio in mezzo ad una prateria.
Attorno a me, i componenti del gruppo indossano corna da bovidi, davanti ai loro strumenti.
Il sole, dietro al ranch, tramonta: è The House of rising sun.
Quando riapro gli occhi, la prima cosa che vedo nel mio schermo 40 pollici è Jovanotti che balla, vestito da Elvis, una delle sue canzoni. Penso, immediatamente, che lo preferivo quando cantava Sei come la mia moto.
C’è uno strano silenzio.
Il cellulare è per terra.
Sul soffitto, il mio orologio Led proietta 4:01
Non so se quel che è successo sia blues o no, ma son certa che domani dovrò inventarmi una scusa.


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Come far colpo ad un vernissage

14445856_10154347482071690_212781344_nPochi giorni fa sono stata invitata all’inaugurazione della mostra di Aldo Mondino, al museo di arte contemporanea Villa Croce.
A Genova i miei momenti più mondani corrispondono
al panino di mezzogiorno col capocollo di cinghiale ed un quartino di rosso al Gran Ristoro,
ad un Gin Tonic afer dinner al Tartan di Boccadasse,
e, per non perdere il trasferimento di qualche nuovo ed elegante professionista,
ad una “macchia”alla Bottega del caffè a metà mattinata.
Invece Villa Croce.
Che, col suo giardino sul mare, è uno di quei posti che spiegano perché sono finita in questa città.
Per giunta l’inaugurazione coincide con la settimana del Salone Nautico, per noi corrispondente a quella della moda a Milano.
Infatti, invece delle modelle, Genova si riempie di uomini brizzolati.
Gli amanti del salone, che risiedono all’ex Bentley, con taglio fresco di barbiere e completo bluette, fumano lunghi sigari davanti a Magnum di champagne nei bar limitrofi a Carignano.
E anche questo racconta perché da Milano mi sono trasferita in questa città.
Businessman su modella, per me, vince come carta su sasso alla morra.
Ma ad un vernissage bisogna sapersi comportare.
Ed ecco come non passare inosservati in un ambiente così radical chic.
La prima cosa importante sono le scarpe che si indossano.
Per le donne, malgrado la scelta sia ampissima, c’è una certa libertà.
Ormai la scarpa femminile, soprattutto ad una inaugurazione, diventa gioco, provocazione, citazione, si trasforma in opera d’arte stessa. Venerdì ne ho viste un paio, ai piedi di una bionda, che parevano un quadro astratto. Un tripudio di paillettes, con diverse gradazioni d’azzurro, erano simili ad una coda di sirena.
Ma per lui, come ho sempre pensato, le scarpe sono la componente che distingue il signore e l’uomo elegante da chi non lo è. E dunque al vernissage diamoci dentro. Sul bel pavimento di marmo di villa Croce ho visto: francesine-oxford, derby, addirittura delle velvet slippers.
Ma mi ha colpito in particolare un mocassino rosso portato con molta nonchalance su un abito blu. Non ti ho neanche guardato in viso, signore, ma sei stato bravo. Davvero.
La seconda cosa importante ad una inaugurazione è il vino 
Naturalmente mentre si visita la mostra, tutta l’attenzione è dedicata alle opere e, come nel fortunato caso che mi ha accolto, alle parole della preparatissima guida.
Ma terminato il percorso, il momento del rinfresco è quello essenziale per le public relations.
Un po’ come l’intervallo all’opera, d’altronde.
E dunque ci si trova, sconosciuti, di fronte a bottiglie di vino, spumante nella maggior parte dei casi, ma potrebbe essere anche rosso o bianco se proveniente da un catering particolarmente ricco.
E dunque bisogna essere pronti a stupire il nostro vicino con un commento adeguato.
Ricordate: la prima impressione è sempre la più importante.
Osservate colore, trasparenza, annusate e poi dopo un breve assaggio, come se vi bagnaste le labbra, partite con:
Pietra focaia.
Aut vaniglia e noce.
Aut tartufi e violetta.
Aut ribes e lampone.
Ma per non sbagliare mai, la parola d’ordine è :
selvatico e more.

Ed infine, mi chiederete, di arte, non se ne parla?
Per fortuna, le opere contemporanee permettono una naturale libertà di stimoli ed accostamenti, che, dopo un po’ di selvatico e more e qualche complimento alle estremità inferiori ed a ciò che le contiene, rendono più competente e disinibito anche il semplice appassionato.

Le opere di Aldo Mondino fotografate sono:

The Bizantine Word, 1999
Cioccolatini su tavola

Trofeo, 1996
(Trophy)
Vetro, bronzo


Si parte

13883669_10154195100331690_1986051954_nIl 1 agosto è il giorno della partenza, ma io snobbo la Spagna, meta privilegiata per questo 2016, e non ho un biglietto aereo per Berlino che è sempre stata la destinazione di tutte le mie estati. Malgrado questo, decollo anche io, pur senza lasciare via Venti Settembre 20. Ed eccomi trasferita da ventialventi.myblog.it a ventialventi.it. Per riarredare l’ormai famosa stanza d’albergo, ho passato ore ed ore nella foresta di WordPress, stanca e perduta e soprattutto preoccupata di non trovare l’uscita. Ma come capita per ogni innamoramento, appena ho incontrato il mio template non ho avuto dubbi. L’aspetto esteriore, come vedete, è rinnovato: ho puntato sul nero che smagrisce, il bianco che è sempre elegante ed il rosso che alle bionde sta benissimo. L’archivio raccoglie tutti i miei articoli rimessi a nuovo e catalogati proprio come le mie 97 scatole di scarpe, battezzate paio per paio. Divano nuovo e puff in coordinato. Vetrinetta doppia, dato che i profumi sono sempre di più. Che se già li ho usati per condire i cibi, prima o poi, in mancanza di champagne ghiacciato, li berrò come faceva Piero Ciampi. Ma un problema permane: l’aria condizionata. Un po’ perché costosissima, soprattutto l’installazione, un po’ perché son contraria concettualmente, tutti gli anni cerco di resistere e tenere duro fino a quando il caldo non cala. Staziono dunque tra due ventilatori puntati ad est ed ovest: l’effetto è quello di essere sul ponte di una nave. Qualcosa tra il Cinastic di Vinicio Capossela ed un posto ponte in traghetto verso Mykonos. Ma, malgrado io canti a braccia aperte tra i due getti d’aria My heart will go on, non ci sono strategie vincenti per combattere i 4o gradi. Le ho provate tutte. Di giorno uso lo spruzzino come fossi in spiaggia. Ma di notte, posso solamente sperare di non perdere la testa. La scorsa settimana mi son svegliata alle quattro completamente sudata dopo che uno tsunami aveva distrutto via Venti Settembre, scarpe, profumi e, soprattutto, il nuovo sito. Pensai subito di dover riossigenare il cervello con un po’ d’aria fresca. E dato che dal cavedio non ne entra un filo, l’unica soluzione è stata andare a dormire sul pianerottolo. Apparecchiato il mio rifugio notturno, ho sognato per un’oretta secca, senza interruzioni. In tempo per fuggire in casa, prima che arrivassero: la coppia di commercialisti alla mia destra, il  70 enne in fondo al pianerottolo che mi fa la corte, la nostalgica sarta albanese dell’ultimo interno e l’odioso ragazzino secchione al mio dirimpetto.
Insomma tutti coloro che popolano questa casa, strana come me.
Buon viaggio.